«Chi (m) era»

«CHI (M) ERA»

«Lo avete chiamato Chimera, perché trovare parcheggio qui intorno è impossibile?» Aveva esordito così quel ragazzo appena entrato nel bar e che aveva lasciato senza fiato tutta la clientela femminile. La sua eccezionale bellezza e il fisico da atleta erano state un toccasana per svegliare quei corpi ancora assonnati. «Signori un attimo di attenzione, dimenticavo di dirvi che oggi a chi acquista un cornetto e cappuccino, in regalo diamo un corso di cabaret» rispose d’istinto Gianni, il proprietario, mentre stava preparando l’ennesimo caffè della mattina. Chiunque avesse mai giocato col nome del bar, lo aveva da sempre infastidito e malgrado non lo desse a vedere, rimuginava il suo dissenso: «Passi intere giornate a cercare un nome per quella che sarà l’attività della tua vita, a comprendere se riuscirà a raccontarti per ciò che sei e poi ecco arrivare il primo damerino a ridimensionare il tutto a un semplice gioco di parole!» «Che c’è Gianni, sei geloso?» gli rispose Anna, una delle sue più affezionate clienti, mentre con lo sguardo ammiccava verso quel ragazzo, oltre ogni canone estetico. «Lo sai Annarella che in questa strada, dopo Lorenzo, sono io l’altro magnifico!» le rispose Gianni con il sorriso beffardo. «Saranno almeno dieci anni che fai questa battuta!» gli rispose Anna tenendogli testa. «Andiamo insieme a fare il corso di cabaret?» gli disse il ragazzo, che aspettava solo il momento per controbattere. Gianni fece finta di incassare il colpo e si limitò a chiedergli: «Cosa le preparo bel giovine?» «Vorrei un caffè ristretto in tazza grande molto macchiato ma senza schiuma e possibilmente bollente, grazie» rispose e così dicendo sapeva di infastidire non solo quel barista, ma l’intera categoria. «Mi dispiace ma oggi non possiamo, non abbiamo la fettina di prosciutto tagliata vicino l’osso da metterci accanto». Se qualcuno fosse entrato in quel momento avrebbe visto due amici punzecchiarsi l’un l’altro a suon di battute, ma la verità era un’altra. Gianni di solito era un buontempone, gran lavoratore, pronto alla battuta, ma sempre nei limiti dell’educazione e raramente lo si sentiva rispondere in maniera così piccata, per lo più a un cliente mai visto prima. In quel bar di persone da prendere come bersaglio ce ne sarebbero state molte, i personaggi più strani che gravitavano in quel luogo erano oramai sagome di un poligono sventrate dai colpi della vita, ma Gianni era oramai stanco di accanirsi contro di loro. Sparare su Er Lampadina? Quel tizio, per lo più taciturno, rimaneva in silenzio in un angolo del bar, per poi accendersi improvvisamente in interminabili invettive contro il Governo e la madre; sarebbe stato come prendere la mira contro una Panda celestino chiaro con dentro quattro suore. In quanto a Branzino, non c’era storia, abboccava a tutto e alla fine ti faceva pure pena infierire su di lui. Addirittura credeva a quello che diceva Er zanzara, un alcolizzato in possesso di un tono di voce simile, per l’appunto al fastidioso insetto, con la peculiarità di intromettersi in qualsiasi discorso, ma incapace però di formulare frasi di senso compiuto. Una fauna variegata che alimentava una forma di becero sarcasmo in chi la doveva subire quotidianamente. Quel ragazzo non era però un fenomeno da baraccone con cui passare il tempo, ma nessuno poteva immaginare ciò che sarebbe accaduto. La risposta che diede alla battuta di Gianni lasciò tutti attoniti, più per la stranezza della terminologia usata, che per il tono: «Stai attento che già una volta le orrende vampe che vomiti di foco, l’eroe le spense» In quel momento Gianni, girato di spalle verso la macchina del caffè, si bloccò come se quelle parole fossero per lui il più grande affronto da ingoiare. Emise un profondo respiro, fece finta di niente e si girò porgendogli il più classico dei caffè. «È questa la specialità della casa?» gli rispose il ragazzo incalzando il proprietario. La signora Anna, che intanto non aveva fatto altro che tenere gli occhi incollati sul fondoschiena del ragazzo, tentò di stemperare il battibecco tra i due, intromettendosi nel discorso:«Che belle parole che hai detto, sei un attore? Ecco dove ti ho visto, a Un Posto al Sole!» «No signora, non sono un attore, sono solo uno a cui piace l’Iliade. Omero sembra aver scritto una frase per ogni circostanza» «Bello e intellettuale. Non ti ho mai visto da queste parti, come ti chiami?» «Vengo da molto lontano signora e il mio nome è Angelo Bellero, piacere di conoscerla». Lo sguardo di Gianni intanto si faceva sempre più preoccupato. Il baciamano appena accennato provocò una tempesta ormonale nella signora, la quale non si era arresa al tempo che passava e provava spudoratamente a giocarsi le sue carte. Il ragazzo posava nel frattempo due euro sul bancone, lasciando il caffè imbevuto e salutando i presenti. Anna lo seguì all’uscita, ma lui sembrava essersi dileguato nel nulla. Gianni si asciugò le mani allo straccio che era sotto al bancone, con la mente immersa in chissà quali pensieri, proseguì a servire i presenti. «Bravo il nostro Gianni, un cliente bono c’aveva e l’ha fatto scappare», gli disse Anna vedendolo taciturno: «Sembrava ti conoscesse». «Mai visto in vita mia» rispose categorico Gianni, come a voler chiudere quel discorso sul nascere. La giornata era proseguita come sempre: l’ora di pranzo era stata un via vai d’impiegati e commessi attratti dagli invitanti primi piatti, poi nel pomeriggio, i soliti habitué iniziavano a scaldare le sedie e a condire l’atmosfera con le loro inutili teorie sul nulla. Ogni cosa si dicesse in quel bar, sembrava scivolare addosso a Gianni, il quale non riusciva a scrollarsi da quel torpore che lo aveva avvolto dalla mattina. «Come ha fatto a sapere dove fossi? Erano secoli che non lo vedevo!» Er Zanzara gli attaccò una filippica sul motore della sua Ford Focus, asserendo che fosse di gran lunga migliore di quello della Lancia Delta Integrale che aveva partecipato al Campionato Mondiale di Rally. Er Zanzara parlava sempre e non ascoltava, a meno che non si mettesse in dubbio la sua sconfinata sapienza. Una signora chiacchierava di uncinetto? Lui conosceva una tecnica segreta che gli aveva tramandato la nonna prima di morire. Il discorso si spostava sul golf? Lui un giorno aveva centrato con un colpo solo la buca, grazie a un tiro di oltre trecento metri.  Er Zanzara era un vero professionista della fandonia, quello che a Roma chiamano il «Re dei cazzari»; lui non dimenticava mai le storie che inventava, perché non erano improvvisate, ma figlie di un processo narrato e provato migliaia di volte nella sua testa, che gli permetteva di non dimenticare alcun particolare. Alla fine lo si lasciava parlare, cercando di vedere la fantasia dove lo abbandonasse. Arrivata l’ora di chiudere, Gianni invitò Er Zanzara a scolarsi ciò che gli avanzava del dodicesimo Campari della giornata e a sparire. Salito il tasso alcolico, diventava molesto anche fisicamente e oltre alla sua arma più temibile, la voce, si aggiungeva il vizio di cominciare a toccare tutti mentre parlava, trasformandosi in una sorta di piattola. Gianni chiese a Branzino di smettere di fare da sparring partner alle stupidaggini dell’amico e di andarsene anche lui. Dopo aver sistemato le casse di birra artigianale sulla mensola alta vicino all’ingresso, prese la giacca, le chiavi e spense le luci del bar. «Che fai, te ne vai senza avermi preparato il caffè ristretto in tazza grande molto macchiato ma senza schiuma e possibilmente bollente, che ti avevo chiesto stamattina?» Quando Gianni riaccese la luce, trovò quel giovane seduto sul bancone che lo guardava fisso con aria di sfida. «Da dove sei entrato?» «Io non sono mai uscito da qui» «Maledetto, perché non mi lasci in pace, erano secoli che non t’incontravo». «Semplice: non sapevo che fossi ancora vivo». «Se è per questo anche io ti credevo morto». «Per tua sfortuna no e sono venuto a chiudere questa storia per sempre». Proprio in quel momento il ragazzo con un balzo scese dal bancone e si strappò la camicia di dosso, lasciando che i muscoli si mostrassero in tutta la loro potenza, una spada gli si materializzò tra le mani. Gianni indietreggiò qualche passo quanti gliene bastarono per dare inizio alla trasformazione. Si accovacciò, mentre i lineamenti cominciavano a modificarsi. La maglietta si lacerava mentre dalla schiena fuoriusciva la testa di una capra, contemporaneamente un serpente, come fosse una coda, cominciava a muoversi minaccioso nell’aria. Il resto del corpo e il volto di Gianni presero la forma di un leone, che nel ruggire disse: «La chimera è tornata, fatti sotto Bellerofonte!» «Ti avevo lasciato che eri un mostro e ti ritrovo peggiorato!» gli rispose il suo eterno rivale. La Chimera cominciò a riscaldare l’ugola, che intanto iniziava a produrre fiamme come fosse una fornace accesa. «Dovresti far qualcosa per la tua acidità di stomaco, hai provato con questo?» Bellerofonte con un ulteriore balzo, cominciò a colpire il muso della capra, che sembrava essere il punto debole del mostro. Un belare stridulo e arrendevole ne sanciva lo stordimento. Intanto il serpente afferrava la caviglia di Bellerofonte, che venne così lanciato contro il bancone. L’impatto produsse non pochi danni alla collezione di liquori posti sulle mensole. «Gli dei ti avranno dato anche forza, grazia e bellezza, ma in quanto a cervello debbono aver lesinato». La Chimera cominciò a sputare fuoco contro il suo nemico. Le fiamme venivano schivate da Bellerofonte che intanto saltava da un muro all’altro come fosse un acrobata, non dando punti di riferimento al suo avversario e brandendo la sua spada: «A proposito come sta quel cane di tuo fratello, Cerbero? Certo che in famiglia la bellezza non era proprio di casa!» «Taci, mia madre era bellissima!» rispose la Chimera, sputando l’ennesima palla di fuoco che andava a squagliare il frigo delle bevande. «Hai ragione a metà su tua madre, sulla parte sopra ci ho fatto più di una volta un pensierino, ma su quella da serpente invece avrei da ridire», rispose Bellerofonte che era riuscito a colpire di striscio la coda della Chimera. «Vedo che la tua superbia ancora ti gioca brutti scherzi, a proposito come sta Zeus?» ed ecco le fauci della Chimera intente ad addentare la preda, che sgusciando via, la lasciava ad assaggiare il legno del bancone, mandandolo in frantumi. «Tu confondi la superbia con l’audacia». La spada questa volta andava tagliando in due il frigo dei gelati. «Chi ti manda questa volta, ancora Iobate?» «No, mio suocero non c’entra nulla. Sono io che volevo chiudere il discorso con te. Poco intelligente da parte tua chiamare un bar Chimera e non pensare che qualcuno dall’Olimpo ti venisse a cercare». «Di solito da lassù mi mandavano quelli da uccidere!» disse la Chimera. «Se non ricordo male, l’ultima volta, quello che finì arrostito dal suo stesso fuoco eri tu, o sbaglio?» Per la prima volta i due si fermarono, nei loro petti era evidente l’immane affanno che non gli premetteva di proseguire nella lotta. Il bar era oramai un cumulo di macerie, paragonabile a ciò che resta dopo il passaggio di un uragano. «Perché non mi lasci in pace a vivere le mie vite?» Dallo sguardo della Chimera, per la prima volta dall’inizio dello scontro, traspariva il suo animo umano, mentre quella frase dal sapore arrendevole, chiedeva tregua per un passato che oramai non gli apparteneva più. Bellerofonte intanto poggiava la sua spada su ciò che rimaneva del bancone e rimase ad ascoltare cosa avesse da dire il suo eterno nemico: «Farci la guerra per cosa? Qualcuno un giorno ti mandò da me dicendoti che io ero il male. Ti spedirono tra le mie fauci credendo che ti avrei ridotto a brandelli. Solo grazie alle tue abilità nella lotta ne sei uscito vincitore. Giocasti d’astuzia, facendo della mia arma letale, la tua miglior alleata. Ma tu ti sei mai interrogato sul perché io fossi così malvagio? Quale fosse la mia vera natura e se la mia violenza non era altro che il frutto di una pianta lasciata crescere nell’odio? Anche mio fratello Cerbero non ebbe sorte migliore. Spedito a guardia dell’Ade e poi designato a essere l’ultima delle dodici fatiche di Ercole. Deforme a tre teste, con peli fatti di serpenti, non proprio un bel biglietto da visita per vivere la propria esistenza in tutta tranquillità. Anche lui usato affinché qualcuno, sconfiggendolo, si potesse erigere a paladino. Com’è che dissero di noi in quel film Missione Impossibile: Quando si cerca un eroe, bisogna partire dalla cosa di cui ogni eroe ha bisogno: un cattivo. Eccomi! Sono stato per secoli un mostro deforme verso il quale tutti puntavano il dito. Mi dovetti rifugiare su di un monte e vivere lassù in completa solitudine. A quella montagna diedero il mio nome perché ricca di solfatare che accendevano improvvisi fuochi, si creò così il mito della Chimera. Ho pregato per secoli affinché il mio aspetto potesse mutare, fin quando gli dei mi diedero l’opportunità di avere fattezze umane. Ho ancora la possibilità di tornare ciò che ero, magari per difendermi, ma il solo rivedermi per un attimo con queste sembianze mi ricorda un passato che vorrei seppellire per sempre. Non appena questa mattina ti vidi qui nel bar, o in quello che ne resta, ebbi subito il sentore che qualcosa non andasse. Come vedi sono cambiato e anche tu credo, hai perso il tuo fido cavallo, te ne vai in giro a cercare parcheggio, non siamo più richiesti nemico mio, nessuno ti ha mandato e io non avevo alcuna voglia di vendetta. Siamo qui a fronteggiarci per qualcosa che ci hanno inculcato, figli di una guerra che siamo rimasti da soli a combattere. Anche io sono in parte legato al nostro passato, è per questo che ho chiamato questo posto Bar Chimera. Nell’ignoranza di molti ha un significato di speranza: entra e raggiungi ciò che pensavi impossibile. Così attraverso la mia cucina, i miei caffè, le mie birre artigianali, nel mio piccolo, cerco di far credere alla clientela che almeno con il palato si possano esaudire certi desideri». A quel punto Bellerofonte scese dal bancone, la spada che vi era poggiata sopra scomparve. Si avvicinò alla Chimera e le accarezzò il capo come fosse un docile cane, invitandola a tornare a fattezze umane. Quando la Chimera riprese le sembianze di Gianni, Bellerofonte gli disse: «Visto che abbiamo gettato la maschera, anche io ho passato tutto questo tempo a chiedermi chi fossi. La mia bellezza, la mia eterna alleata, invece si è rivelata un’arma a doppio taglio, proprio come la mia spada. Mi ha fatto credere di essere invincibile, sfidai addirittura l’Olimpo, perché specchiandomi in ogni corso d’acqua, mi sentivo forte e bello come un dio, tanto dar far diventare la superbia il mio tallone d’Achille. Disarcionato da Pegaso, mentre ero in volo verso il regno degli dei, mi costrinsero a privarmi del mio cavallo alato, che lasciai a trainar saette per conto di Zeus. Ora comprendo in pieno perché ti ho cercato in tutti questi secoli, perché tu sei stata la mia unica vittoria, il mio momento di gloria: Ha ucciso la Chimera e allora che prenda in sposa mia figlia! Questo andava gridando mio suocero al suo popolo, mentre venivo portato in trionfo sugli scudi. Quando venni a sapere che eri ancora vivo ho visto la mia fama sgretolarsi e allora ti ho cercato in ogni luogo, in ogni era, per mettere la parola fine a questa storia. Poi vengo qui e mi accorgo che senza Pegaso non sono così forte, vengo a scoprire che tu in realtà non sei come vieni dipinto. Finiamola qua, dopo secoli di lotte è arrivato il momento della pace, che ognuno abbia la sua terra, i propri luoghi dove poter vivere serenamente, senza vincitori né vinti, evitando che il passato ripiombi ferocemente nelle nostre vite. Prima di andarmene per sempre, ho un ultimo compito da svolgere». A quel punto la spada si materializzò nuovamente tra le sue mani, Gianni si mise in guardia, credendo che tutto quello che Bellerofonte aveva detto fino a quel momento fosse in realtà l’ennesima trappola. Vide la spada trapassare le tre slot machine fino ad allora rimaste indenni. I soldi si sparsero per tutto il pavimento. «Perdonami Gianni, ma non sopporto i luoghi dove la gente si rovina con le proprie mani, queste macchine infernali erano la vera chimera di questo posto». Improvvisamente si levò una voce dal cumulo di macerie: «Chiedono di andare al voto, perché sanno che i loro elettori l’unica cosa che riescono a scrivere senza errori è la X. Mamma non ci voglio andare dal dottore che mi fa le domande! Chi è il Presidente della Repubblica? Se lo sai voti, altrimenti no. Mamma lasciami stare, le gocce non le voglio prendere che poi non mi ricordo niente!» Er Lampadina si era acceso. Senza che Gianni se ne fosse accorto, era rimasto seduto in un angolo del bar, preda di uno dei suoi black-out quotidiani, rischiando di rimanere coinvolto in quella furibonda lotta. Pieno di calcinacci, pezzi di transistor e vetri, incominciò a incamminarsi verso l’uscita, arraffando da terra parte delle monetine sparse. Non avrebbe ricordato nulla di quella sera e se ne andava con le sue teorie politiche che nascondevano una profonda analisi in materia, alternata alle solite invettive contro una madre che non aveva fatto altro, fin da bambino, che portarlo da psichiatri capaci solo di sedargli il cervello per il resto della vita. Gianni e Bellerofonte cominciarono a ridere meravigliandosi di questo personaggio materializzatosi dal nulla. Le volanti arrivarono dopo circa venti minuti: «Agente, avevo da poco chiuso il locale, quando tornato a casa ho pensato mi fossi scordato il cellulare sul bancone. Come sono arrivato ho trovato la serranda alzata, la porta semi aperta e dentro questo disastro. Proprio l’altro giorno un tizio è entrato nel bar proponendomi protezione e avvertendomi che ero su un campo minato. Insomma, qualcosa deve essere esploso». Due mesi dopo: inaugurazione del Nuovo Bar Chimera. «Ed eccolo immancabile il nostro Zanzara» disse Gianni mentre serviva Spritz a tutti. «Te credo, gli sarà arrivata voce che oggi se beveva gratis» rispose Branzino. «A proposito a Giannè, ma che t’era successo?»  chiese Er Zanzara. «Non puoi capire: è entrato un tizio con una spada che ha cominciato a distruggere tutto. Così io mi sono dovuto trasformare in un mostro per difendermi. Tempo cinque minuti e il bar era un cumulo di macerie» gli rispose con l’intento di sfidare Er Zanzara a chi la sparasse più grossa: «Nun poi capì a me che m’è successo Giannè, uno ‘na vorta ha provato a rubamme l’alettone della Focus, così ho preso er crick e…» Quel bar continuava così a essere così il rifugio di ogni essere mitologico. Copyright© All rights reserved Tratto dalla raccolta «I Racconti del Bar Gianni» Edito da L’Erudita di Giulio Persone Editore
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