«Bullo bolle balle»

BULLO BOLLE BALLE racconto inedito di Alberto Fiori

I bulli non sono altro che delle bolle piene di balle. Racconto la mia storia, ciò che accadeva in classe, il menefreghismo di certi insegnanti. Un messaggio di speranza a chi oggi ne è vittima. Ho avuto il piacere di leggerlo nelle scuole e trovarmi di fronte a ragazzini che trovavano improvvisamente il coraggio di rivendicare un sopruso di cui erano vittime. Parlarne è l’arma con cui potrai sconfiggerlo.

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BULLO BOLLE BALLE

Noi eravamo quelli della classe di mezzo per dirla in stile Mafia Capitale, perché in fondo eravamo davvero vittime di una mafia, ma di natura scolastica. Eravamo quelli che, se ci impegnavamo a stento arrivavamo al sette, altrimenti navigavamo in una sufficienza tale da renderci per l’appunto quelli di mezzo, né troppo ciucci, né intelligenti. I secchioni potevano anche non assistere alle lezioni, arrivavano con i compiti perfetti, rispondevano alle interrogazioni, come se il libro l’avessero scritto loro. Il passaggio dalle elementari alle medie inferiori sembrava non averli minimamente scalfiti. Venivano in parte sfruttati per le loro doti e quindi lasciati in pace, l’importante era che al momento giusto passassero quel benedetto fogliettino con le risposte sopra. Poi c’eravamo noi: seduti a metà della fila, con lo sguardo cercavamo di capire per non rimanere indietro, per rispondere alle domande dei professori, non volendo intervallare fastidiosi ehm alle nostre già vaghe risposte. Vedevo la professoressa passare tra i banchi con lo sguardo che mutava dall’essere fiero delle prime file, al premuroso delle ultime. Noi in mezzo venivamo ignorati come se facessimo parte di un altro appello. Dietro c’erano loro, quelli problematici, così li avevano definiti. Ragazzi con disturbi caratteriali o situazioni complicate a casa. Andavano recuperati. Chi a inizio anno aveva composto le sezioni doveva aver pensato di metterli tutti nella nostra classe per non farli sentire soli; questa era l’unica spiegazione, la casualità non sarebbe stata in grado di spingersi a tanto. Le compagne più carine impazzivano per un paio di loro, perché erano i fichi, quelli vestiti col giubbotto di pelle, col capello lungo o rasato, quelli estremi, con la loro idea politica già ben definita, tanto da riportarla sui diari di tutti noi, sui banchi, sui muri fuori la scuola, sulle fronti di qualcuno con l’uni Posca indelebile. Loro non avevano lo zaino. Se fosse piovuto li avresti visti arrivare fradici, l’ombrello era da perdente. Nessuna mezza misura, il personaggio richiedeva questo. Inevitabilmente quel loro modo di fare risultava vincente e anche io sognavo di vestirmi come Mirko con il giubbotto di pelle, che però i miei non mi compravano perché costava troppo e poi sicuramente mi avrebbero malmenato per rubarmelo. Io glielo dicevo a mia madre che tanto mi picchiavano comunque ogni giorno e lei mi rispondeva: «Ma almeno non ti rubano il giubbotto». La campanella della ricreazione si trasformava nel gong che avrebbe dato inizio all’incontro. All’angolo rosso, con il peso da sfigato, il malcapitato di turno, tirato a sorte da uno sguardo di troppo. Eccoli allora guardinghi ad aspettare un suo minimo movimento per avere l’autorizzazione a colpirlo con una serie di pugni indirizzati sulla spalla, al grido di «C’era!» Naturalmente era un gioco anche se i lividi dicevano il contrario. Per non parlare del collo, arrossato dai continui colletti, dolorosi schiaffi indirizzati a chi osava tagliarsi i capelli. Come quando volevano sincerarsi che il jeans che indossavi, rigorosamente modello Levi’s Strauss 501, fosse originale e ti spruzzavano il liquido infiammabile dello Zippo sulla coscia, solo perché si erano convinti che l’annerimento del tessuto presupponesse il fatto che fossero falsi. Nasceva così il pretesto per additarti come pezzente e deriderti per questo. Se ti fossi ribellato, ti avrebbero aspettato fuori con l’intento di dar vita al loro show di ulteriori prepotenze e umiliazioni. Poi c’era il periodo dell’affiliazione, quando uno di loro decideva di prenderti sotto la sua ala, per proteggerti dagli altri del branco e farti diventare un proprio vassallo. Le prime prove di clan. Io li odiavo e mi impegnavo in qualche modo a combattere la mia guerra, cercando di evitarli il più possibile. La vita, a distanza di anni, mi ha dato la possibilità di leggere alcuni dei loro cognomi sulle pagine della cronaca nera. Ho assistito anche alla resurrezione di uno di questi, a cinque anni dal quel funerale inventato per fuggire da chissà quale situazione. Lucio intanto tornava ogni giorno a casa con le braccia nere e gli sputi lavati dalla felpa. Io lo vedevo la mattina camminare rasente i muri come a volersi nascondere, entrare in classe con la paura stampata sul volto e sedersi sperando che il mondo lo ignorasse. Andavo a casa sua ogni tanto a fare i compiti, una famiglia umile e stupenda. In fondo anche io avevo il mio clan Copyright© All rights reserved
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