«Bomber»

BOMBER racconto inedito di Alberto Fiori

Ogni bambino ha i propri eroi; da piccolo sognavo di essere Bruno Conti. Poi un giorno al Comunale di Torino, spalle alla porta, un certo Roberto Pruzzo…

Tempo di lettura: 8 minuti

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BOMBER

Indottrinare il proprio figlio fin dall’inizio, bandierina in mano e «Dai facci sentire, Forza La…, Forza Laz..». Quello che usciva poi dalla mia bocca innocente di bambino di poco più di tre anni, non era esattamente ciò che un padre di fede biancoceleste voleva sentirsi dire. La tenacia però non mancava di certo a mio padre e malgrado la stragrande maggioranza dei parenti e amici fosse giallorossa, lui non demordeva. Una questione di principio la sua. Intanto erano arrivati gli anni in cui la Roma, quella di Liedholm, stava prendendo forma ed io sempre più attratto da quei colori, mi ritrovavo invece a dover gioire con mio padre di un goal di Giordano o D’Amico, con la stessa enfasi in volto di un bambino a cui viene chiesto di sorridere per la foto ricordo della Prima Comunione. Come tutti i bambini avevo anche altri miti. Mi rispecchiavo in Goldrake e chiedevo a mia madre se avessi potuto anche io lanciare i magli perforanti. Quel «basta che non ti fai male» di risposta, cozzava contro la mia voglia di potermi staccare gli avambracci. Per fortuna un idolo più vicino alla realtà stava nascendo dentro di me. Aspettavo con ansia le 18:20 della domenica, davanti al televisore sintonizzato su Rai Uno. Pippo Baudo terminava la sua Domenica In e partiva quella sigla che ogni uomo, dai quarant’anni in su, vorrebbe come sottofondo per il filmino delle proprie nozze. Paolo Valenti salutava con la sua innata classe e dava inizio ai collegamenti dai campi. Vederlo correre sulla fascia con quei capelli al vento, crossare la palla con precisione chirurgica per la testa degli attaccanti, lo aveva consacrato nel mio immaginifico al fianco di Actarus e Hiroshi Sheba. Lui era Bruno Conti. Volevo ricalcarne le orme, tenendo ben nascosto nel cassetto questo mio sogno, visto che avevo esattamente due comodini al posto dei piedi e l’acume calcistico di mia zia. Per rimediare avevo assegnato dei nomi di calciatori alla mia discreta collezione di Puffi: «Questo è Falcão, questo è Di Bartolomei, questo è Bruno Conti»; pomeriggi interi, sdraiato su un tappeto che mi faceva da campo di calcio, a giocare partite in cui la mia Roma batteva tutti. Conti era il più grande calciatore del mondo, malgrado fosse impersonato da Puffo Battitore del baseball. Arrivava poi quel sabato in cui mio padre, a tavola, durante il pranzo, mi faceva andare di traverso il boccone, dicendo: «Guarda che ho qui? Domani andiamo allo stadio, contento?» Purtroppo per lui, l’anno prima, la Capitale si era tinta di giallorosso ovunque, la Roma aveva vinto lo scudetto e grazie a zio Pino, ero riuscito ad avere la mia prima sciarpa con su scritto «Magica Roma». La nascondevo nell’armadio e la indossavo quando mio padre non c’era, perché non volevo ci rimanesse male. La lana con cui era fatta poteva provocare attacchi improvvisi di rosolia, ma rischiavo, pur di indossare quei colori. Una domenica come tante, mi ritrovai sulla Fiat 127 di famiglia a cercare parcheggio intorno allo stadio. Mio padre aveva l’abitudine di cercare posto almeno un chilometro e mezzo prima: «Così dopo non troviamo traffico». Ma quella domenica non avrebbe dovuto portarmi con sé, quella domenica mi doveva lasciare a casa davanti a Teleroma 56: c’era Juventus-Roma al Comunale, la sfida per eccellenza! In qualche modo avevo rimediato portandomi di nascosto l’unica radiolina che avevamo in casa, anche se sintonizzarla sarebbe stata impresa ardua. Le squadre entravano in campo, la Lazio con la classica maglia biancoceleste affrontava la compagine viola di Antognoni. «Tieni la bandierina, che inizia!». Le notizie che arrivavano intanto da Torino mi dicevano che, tra le parate di Tacconi e Tancredi, la partita era in perfetta parità. Il segnale andava e veniva, una radio religiosa faceva irruzione nelle frequenze e tra una parabola di Gesù e una di Falcão, cercavo di capirci qualcosa. Intanto Giordano, servito da Spinozzi aveva portato in vantaggio la Lazio; un bel tiro dalla distanza di cui non m’importava un bel niente. Squadre a riposo in tutta Italia. «Lo vedi che la Lazio vince?» esclamò mio padre, mentre due tifosi fiorentini, accanto a noi, gli rispondevano ironici: «Oh bischero ‘mo Antognoni rimette a modino le cose!». Che fossero due preveggenti non lo potevo immaginare, fatto sta che poco dopo l’inizio della ripresa, da una mischia in area laziale, proprio il capitano dei Viola  riportò il risultato in bilico. Un «Maremma Antognona!» uscì dalla bocca dei nostri vicini. Io, sempre con la bandierina in mano più ammainata che mai, mi disinteressavo di entrambe le squadre e con la mente cercavo d’immaginarmi che sul campo dell’Olimpico, stessero correndo i miei di eroi. Poco dopo si sentì un boato di dissenso, qualcuno disse: «Ha segnato la Roma». La radio incollata al padiglione auricolare mi diceva forte e poco chiaro: «Bruno Conti ha fatto partire un bolide da fuori area a beffare all’angolino l’incolpevole Tacconi, e … la misericordia di Nostro Signore l’Altissimo veglia su tutti noi». Non potevo esultare e implosi tutta la mia gioia gridando dentro di me: «GOAL !!!» Il tabellone dello stadio aggiornava il parziale confermando per iscritto quanto captato. La gioia durò poco visto che Michel Platini, dopo neanche dieci minuti, pennellò una punizione delle sue insaccando la palla sotto il sette. Tancredi battuto. Intanto all’Olimpico la situazione era in stallo ed entrambe le squadre sembravano studiarsi senza volersi far male più di tanto. Al ’77 ecco arrivare la notizia che non ti aspetti: Bonini e Nela vanno a scontrarsi fortuitamente in area cercando di liberare un pallone, che invece trova il piede di Domenico Penzo, il quale scarica la sfera alle spalle di Tancredi, riportando così la Juventus in vantaggio. Cercavo di ricostruirmi nella mente le azioni non potendole vedere in diretta e mi chiedevo come avessero potuto i difensori giallorossi permettere una cosa del genere. Disperato come non mai me ne stavo zitto a fissare il campo. «Non essere triste, dai che ora segniamo e pensa alla Roma che sta perdendo» mi disse un tizio seduto accanto a me, credendo di tirarmi su di morale. All’80’ ecco Daniel Passarella alleviare un po’ i miei turbamenti, inventandosi un tiro dalla distanza a beffare il portiere laziale: 1-2, triplice fischio e tutti a casa. Un «Maremma Passerella!» si diffuse nell’aria. Mio padre sconsolato mi disse di cominciare ad avviarci verso l’uscita, così da evitare il trambusto. Ricordo ancora che tra l’alzarsi dal posto, raccogliere le proprie cose e raggiungere le scalette che ci avrebbero portato fuori dallo stadio, passarono circa cinque minuti. Stavo per scendere il primo gradino quando avvertii ancora quel boato di dissenso, di rassegnazione, che tutto lo stadio in coro, fiorentini esclusi, stava emettendo. Non feci in tempo a sintonizzare la radiolina, che il tabellone segnò il pareggio di Pruzzo al 90’. Sentivo la voce del radiocronista che ripeteva: «Incredibile rovesciata del bomber giallorosso!», per poi lasciare spazio alla «Vergine Maria e tutti i Santi». Nella mente cominciai a disegnarmi l’azione come fosse una delle tante vignette dell’Almanacco Illustrato del Calcio, ma malgrado la mia fantasia, non potevo di certo immaginare come Odoacre Chierico avesse crossato quella palla dopo un sombrero proprio ai danni di Platini e come Pruzzo fosse volato spalle alla porta, per coronare quella partita con il gesto balistico per eccellenza. Tornato a casa, incoronai Puffo Cowboy come il mio Roberto Pruzzo, tentando di riprodurre quel goal a ogni partita. Dovetti cercare ulteriore spazio dentro di me per costruire un nuovo altarino in cui posizionare un altro mito della mia infanzia: il Bomber. Mio padre nel frattempo si arrese: «C’ho il figlio della Roma» era tutto quello che rispondeva da allora a chi gli chiedeva come andassero le cose. Copyright© All rights reserved
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