«Ha potato ciò che ha potuto»

Copertina Quel che resta dei melograni di Maria Rosa CutrufelliLa protagonista di questo racconto ha tagliato i ponti col passato, tagliato corto nelle discussioni e Dio solo sa le volte che ha tagliato la corda, tanto da essere sicura di ritrovarsi scritto un giorno sulla lapide «Ha potato ciò che ha potuto». Da un incipit scritto dalla grande Maria Rosa Cutrufelli per l’antologia «Quel che resta dei melograni» (Ed.L’Erudita), un racconto sulla natura che si riappropria dei suoi spazi, fuori e dentro di noi.

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«Ha potato ciò che ha potuto»»

A parte i ragni, le formiche e le lucertole, credevo di essere l’unica creatura vivente in casa e nei duemila metri quadrati di terreno che la circondano. Che sciocca presunzione! Infatti, un bel giorno ho scoperto che la macchina non entrava più sotto la pergola, perché le rose rampicanti erano cresciute a dismisura… E si fosse trattato solo delle rose! Era un assedio: querce, lecci, alberi di mimose e melograni si spingevano ogni giorno più avanti. Non proprio amichevolmente. O almeno così mi sembrava. «Ha potato ciò che ha potuto», questo rischiavo di ritrovarmi scritto un giorno sulla lapide. Giudizio unanime di ex amori, parenti, amici e soprattutto giardinieri. Ho sempre avuto questo atteggiamento nella mia vita. Pur ammettendolo a me stessa da molti anni, continuavo a farlo; all’indole non si comanda; bella scusa per giustificarsi. Ho tagliato i ponti col passato, ho tagliato corto nelle discussioni, mandrie di tori vagano ora senza testa e Dio solo sa le volte che ho tagliato la corda. «Il suo rapporto con le piante, per esempio, non è altro che una proiezione dei suoi atteggiamenti»: questo era ciò che mi diceva lo psicologo. Ho reciso inevitabilmente anche le sedute con lui. Avevo sradicato per molto meno le radici del mio rapporto con Gianni, quando si permise di paragonarmi a quella Morticia Addams, che si beava dei rami spogli pieni di spine: «Lurch! Chiamato? Sbarazzati di Gianni». Credo che quello che stia vivendo ora sia però frutto del destino, io che mi beavo del fatto che per mia natura ero così, prendere o lasciare, ora stavo ricevendo dalla vera Natura, una sola, illuminante lezione. Sarà per questo che la chiamano Madre, perché monitora come ti comporti, lascia che tu faccia le tue esperienze, ma è capace di rincorrerti con il battipanni se necessario. Si è sbarazzata per più di un mese di me, facendomi cadere dalla scala sulla quale ero salita per tagliare quel ramo, lo stesso che ora mi bussa al vetro della finestra; così si è ripresa i suoi spazi e così si prende gioco di me. Certo che devo ammettere a me stessa che questa incontaminata e rigogliosa natura infonde qualcosa di estraneo al mio corpo; mi affaccio, guardo quel ramo e invece di sporgermi dal davanzale con una sega in mano, giusto per vendicarmi, mi viene solo voglia di fermarmi ad ammirare il panorama che si apre dietro di esso. Con l’aiuto delle stampelle l’altro giorno sono scesa in giardino e debbo ammettere che l’edera che si sta arrampicando su quel muro mi piace, fa molto cottage inglese e poi quei boccioli di rosa, neanche sapevo di averle delle rose e le piccole olive che stanno nascendo, debbo imparare a coglierle e metterle in salamoia come faceva la nonna. Le bouganville in fiore sono un vero spettacolo. Chissà perché le piante lasciate in eredità non vengono trascritte negli atti notarili, sono lasciti che meriterebbero di essere citati. Mio padre, in particolare, ci teneva tanto; passava intere giornate a prendersi cura di esse. Quanto si arrabbiava quando mi vedeva da piccola con le cesoie in giardino; certo che pure lui poteva dare anche degli ordini più precisi: «E piantala di tagliarmi le piante!»; a una bambina le crei confusione nella testa: «Le pianto o le taglio?». Poi uno dice i traumi infantili. Va bene, a parte gli scherzi (della natura) imparata la lezione non mi rimane da fare che dedicarmi alla mia riabilitazione, sia fisica che spirituale, ma prima sento di dover fare una telefonata, voglio trasformarmi anche io in una pianta che vuole crescere, dare i propri frutti, farsi vedere in tutto il suo splendore, anche se, a guardarmi allo specchio, dopo tutto questo tempo passato in casa, avrei bisogno più di un giardiniere, che di un’estetista, ma non vorrei di certo ricadere in tentazione: «Pronto Gianni sono io, perché non passi da me stasera? No tranquillo, Lurch l’ho licenziato»     Copyright© All rights reserved Tratto dalla raccolta «Quel che resta dei melograni» da un incipit di Maria Rosa Cutrufelli, edito da L’Erudita di Giulio Perrone Editore

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