«Mettere a Fuoco»

Copertina Mettere a fuoco di Alberto Fiori

Bianca è affranta, vorrebbe che il suo Enrico fosse lì con lei, ma lui è lontano chissà dove. Non può chiamarlo, lo metterebbe in pericolo. Bianca è consapevole che il silenzio prodotto da quella lontananza diventerà il grido di un popolo che altrimenti non avrebbe voce. Dove può arrivare un amore senza confini? Un racconto nato dall’incipit della scrittrice Lisa Ginzburg per la raccolta «Bianca» (Ed.L’Erudita).

Tempo di lettura: 5 minuti

«METTERE A FUOCO»

Bianca si appoggia alla parete, può sentire il contatto della schiena con il muro e un senso di profonda stanchezza fiaccarle tutto il corpo. Guarda la grande stanza vuota, il sole del pomeriggio impietoso sulla sporcizia dei vetri e due larghe macchie scure a un angolo del soffitto. Vorrebbe chiamare Enrico: chissà quando riuscirà a venire, condividere altro che non siano le loro videochiamate. Anziché telefonare, Bianca preme più forte la schiena contro il muro e si lascia scivolare giù sino ad accovacciarsi a terra. Dormirebbe lì, così, per quanto è sfinita. Se in quel preciso istante Enrico le fosse passato davanti, non avrebbe esitato ad afferrare la macchina fotografica per fermare su pellicola lo sguardo di Bianca. Espressioni così spente ne avrebbe potute trovare a migliaia in giro per il mondo, di gente disperata che aveva perso tutto, di chi stava vedendo la propria casa bruciare dopo un saccheggio, ma quella volta, negli occhi di lei si sarebbe percepito il vuoto e lei che ci vagava dentro. Paure sacrosante, che nessuno sarebbe stato capace di sminuire, l’assediavano; la storia con Enrico era ritornare in superficie per un attimo dopo un’apnea forzata, ritrovarsi davanti al panorama più bello del mondo, per poi sentirsi nuovamente una mano premere sulla testa a ritornare sotto. Bianca fissa la macchia più a sinistra delle due, poco prima di partire Enrico le disse che il posto dove stava andando aveva proprio quella forma e che sarebbe stato altrettanto umido; quella sera si fecero due risate, ma adesso risultava assai complicato fare dell’ironia su una muffa deforme e scura. Aveva conosciuto Enrico nella redazione del giornale dove una volta lavorava anche lei; lo vide arrivare con quella macchina fotografica appesa al collo, come se la professione non gli permettesse distrazioni. Enrico le sorrise scattandole poi una foto, mentre Bianca contraccambiava a quell’espressione con una smorfia involontaria, che ancora oggi era possibile ammirare sul comò della loro camera da letto. Lui era una firma importante del giornale e i suoi reportage, ogni suo singolo scatto, raccontavano quella parte di mondo che molti ignorano. 
I rischi di quella professione avevano portato Enrico a non consolidare legami affettivi, ma da quel giorno sentì che l’unica cosa che avrebbe desiderato trovare a ogni suo ritorno, era il sorriso di Bianca. Diceva che qualsiasi forza lo andasse a sprigionare gli faceva credere che, durante la sua assenza, lei avesse inventato un nuovo propulsore per la felicità. Ecco allora che nel corrergli incontro e stringerlo così forte, nel baciarlo, c’era la sua involontaria vendetta a quella repressione forzata di sentimenti. La vera forza di Bianca, però non stava in questo, ma nel saper tenere ben nascoste le sue paure al mondo, tanto da sembrare distaccata, quanto abituata a quelle assenze, ma solo lei sapeva il prezzo che stava pagando per ogni secondo lontano da lui. 
Ogni tanto fissava la foto di Robert Capa appesa in corridoio, la preferita di Enrico, quella dove un vecchio contadino siciliano indica con un bastone la strada a un soldato; così Bianca ripensa a quante volte, passandoci davanti con lui, gli diceva: «Lui è Robert Capa, tu una capa fresca», pregando che anche lui potesse trovare sempre qualcuno capace a indicargli la strada del ritorno. Enrico sentiva l’esigenza di raccontare i volti di quella gente e le macerie della loro tragedia, doveva documentare quale giro vergognoso di armi si andava innescando in nome di una pace che aveva sempre quel maledetto retrogusto di dittatura. Bianca questo lo sapeva bene e per questo conviveva con un braciere acceso nella bocca dello stomaco. I benpensanti, i detrattori del giornale, lo dipingevano come un perbenista, come se loro avessero chissà quali verità in tasca. 
Sul banco degli imputati finiva anche il dolore di Bianca; bastava solo che lei lo esternasse minimamente, per sentirsi obbligata a rispondere che non se l’era andato a cercare, che l’amore quando arriva non chiede pareri, non fa calcoli e soprattutto sconti. 
L’ultima cosa che Bianca desiderava era rialzarsi da terra, inconsciamente voleva che il suo corpo e il suo animo fossero allo stesso livello. La tentazione di afferrare quel cellulare e capire perché non si facesse sentire oramai da due giorni si andava scontrando con la promessa che lui le aveva chiesto di mantenere: «Questa volta dovrò essere solo io a chiamarti, tu non farlo mai, non sarebbe prudente per me». Quella frase la stava scavando dentro: in quale diavolo di buco del mondo si era andato a ficcare e soprattutto in quale inferno stava scattando foto ai diavoli? 
L’ultima volta che si erano visti in videochiamata risaliva a qualche giorno prima; la frase con la quale lui interruppe la conversazione lasciava pochi dubbi: «Come sto? Diciamo pure che mettere a fuoco diventa un paradosso quando hai il nemico che ti sta sparando addosso». Copyright© All rights reserved Tratto dalla raccolta «Bianca»da un incipit di Lisa Ginzburg edito da L’Erudita di Giulio Perrone Editore
Raccontalo ai tuoi amici

Tag:, , ,