«L’estate perfetta»

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Fossi stato un po’ più grande avrei chiesto all’Onorevole Moro di farci un bagno insieme, a Bartali di raccontarmi di quando salvò tutte quelle persone, a Bombolo di mettersi in posa per quella foto mai scattata.

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L’ESTATE PERFETTA

Avevo compiuto da poco tre anni, era l’estate del 1977. Non appena scaricate le valigie alla reception mio padre si rese subito conto che in quell’albergo di Terracina villeggiava un personaggio fin troppo importante. Agenti in borghese a presidio della zona, bocche cucite e massima riservatezza. Il mattino seguente ero in spiaggia a giocare con paletta e secchiello quando, a salvaguardia del mio patrimonio, mi feci valere contro un altro ragazzino, anche se più piccolo di me che non voleva riconsegnarmi il maltolto. «Sei stato tu a far piangere quel bambino?» mi chiese mio padre stranamente preoccupato. Figuriamoci io, paladino del negare sempre anche davanti l’evidenza gli risposi: «No papà, io non sono stato!». «E allora chi sarebbe stato?» rincarò la dose mio padre arrendendosi ben presto alla mia più che altro irreprensibile presa di posizione. Con la frase «Vabbe’ uguale a tu’ nonna, non è mai colpa tua» mio padre interruppe l’interrogatorio infilando nel discorso l’amata suocera. Lo vidi incamminarsi verso un ombrellone, chiaro l’intento di scusarsi al posto mio per quanto accaduto. In fondo cosa mai era successo? Avevo fatto piangere solo il nipote dell’Onorevole Aldo Moro, tutto qui, erano sciocchezze, cose da ragazzi. Bastò un sorriso a distanza tra le parti per riappacificare gli animi. Mio padre si sentì sollevato anche se a distanza di anni, ogni volta che me lo racconta, ancora un po’ me lo rinfaccia. Di allora però un dubbio mi assale, che qualcuno mi avesse spiato, che avesse messo una cimice, chessò nel mio secchiello e usato la mia scusa fino alla chiusura del caso. Nell’estate del 1981 invece eravamo a Fossacesia, cittadina abruzzese sul mare, che aveva dato i natali a mio nonno. Ero salito in sella alla mia bici, nel piccolo cortile attorno alla palazzina dove avevamo affittato un appartamento. Io e la mia famiglia soggiornavamo al piano terra. Dal balconcino posto al primo piano si affacciò un signore che, vedendomi arrancare, mi consigliò di alzare il sellino e spingere con le punte dei piedi sui pedali. Avrei fatto meno fatica e sarei andato più veloce! Qualche ora più tardi lo incontrammo davanti al portone d’ingresso mentre ci apprestavamo tutti ad andare in spiaggia; mi chiese se dopo i suoi consigli fosse andata meglio. Mio padre non stava più nella pelle, gli strinse di getto la mano rendendogli omaggio: «Sono da sempre un suo grande tifoso!», poi rivolgendosi verso me e mia madre ci disse: «Voi non immaginate chi avete davanti, lui è stato il più grande di tutti, lui è Gino Bartali!». Se solo avessi avuto vent’anni di più lo avrei riempito di domande, gli avrei chiesto se fosse vero, come cantava Paolo Conte, che quando passava lui i francesi s’incazzavano, gli avrei fissato il naso per vedere se era davvero triste come una salita e se aveva gli occhi allegri da italiano in gita, gli avrei chiesto soprattutto di raccontarmi a cosa pensava un attimo prima di nascondere nella canna della bicicletta quei documenti che salvarono così tante vite. Perchè battere Coppi in volata non è stata la sua più grande vittoria; a fare incazzare i tedeschi c’era ancora più gusto. Ancora oggi, in quelle rare volte che monto in sella, ne regolo subito l’altezza e mi sincero di avere le punte dei piedi ben piantate sui pedali. Semmai un giorno, qualcuno mi chiedesse perchè lo faccio, risponderei senza esitare che me lo ha detto Bartali! Mentre le estati passavano, i miei genitori intanto facevano lo sforzo di acquistare un piccolo appartamento sul lungomare di Ladispoli e da quel momento non ci muovemmo più di lì. Era l’estate del 1985. Scoprii che le ‘voci di stabilimento’ erano né più né meno come quelle di corridoio, il passaparola tra un ombrellone e l’altro aveva dato un senso alla mia estate. Avrei conosciuto presto il mio mito. Imploravo così il permesso d’incamminarmi a quattro lidi di distanza per andarlo a riverire. I nomi che si danno alle spiagge non erano mai stati tanto veritieri: dove stavo io non c’era mai ‘Nettuno’, mentre dove c’era lui era giusto che si chiamasse ‘Oasi’, perchè quando lo vidi da lontano inizialmente fu come un miraggio. Proprio come nei film, con la sua canottiera rossa, il cappellino sulla testa, gli occhiali poggiati sul naso, in una mano la matita e nell’altro il cruciverba. Per la paura di disturbarlo me ne stavo in disparte, poggiato di spalle alla staccionata che separava gli ombrelloni dalla spiaggia libera, cercando di trovare il coraggio. Senza nemmeno accorgermene, forse mosso dalla smania di idolatria, mi ritrovai a pochi metri da lui. Avrei voluto dirgli tante cose, fargli sentire come lo imitavo, confidargli che ogni volta che lo vedevo alla tv, mi strappava risate a non finire e invece non ero altro che un bambino spilungone, muto, a fargli ancor più ombra. Lui abbassò le parole crociate e si tolse gli occhiali dal naso. Fu solo allora che un’altra forza, tanto intraprendente quanto oscura, mi diede coraggio per sussurrare: «Che mi potrebbe fare…», abbozzando e male il verso che lo aveva reso celebre. Mi rispose che per entrare bene nella parte, un attore ha bisogno che la sua spalla gli lanci la battuta, così mi chiese d’impersonare, nientepopodimeno che il Commissario Giraldi che lo prendeva a schiaffi. Così venni invitato a colpirlo, non troppo forte, dietro il collo. Quello «Tzù tzù Commisà ce l’ha sempre con me» uscì come d’incanto e dal quel momento ero il bambino più felice del mondo. E poi le estati di quando ero un po’ più cresciuto, il desiderio espresso in una notte di San Lorenzo che a Ferragosto si esaudì, la sabbia dappertutto, il bagno nudi, credere finalmente di essere diventato un uomo. L’estate che ritorna alla mente è una stagione di quelle perfette. Copyright© All rights reserved
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