«Grande disaccordo anulare»

GRANDE DISACCORDO ANULARE racconto inedito di Alberto Fiori

Roma vista dall’alto è un enorme vinile e noi le puntine di un giradischi dove ognuno suona la propria musica. Racconto incluso nella raccolta ‘Roma in 45 giri’ di G. Ziatoni (ed.L’Erudita). E voi che musica state suonando?

Tempo di lettura: 7 minuti

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GRANDE DISACCORDO ANULARE

Roma è un vinile, basta guardarla dall’alto, il GRA l’ha trasformata in un enorme 45 giri.  Le auto che ogni giorno vi rimangono imbottigliate sono le puntine di giradischi. Ognuno suona la propria musica. Quella mattina, dalle casse della mia vita usciva un brano tra il funereo e il deprimente, una marcia funebre al ritmo di reggaeton condita da richiami neomelodici. Se avessi guardato dallo specchietto retrovisore avrei visto certamente il muso di una Golf Gt Turbo 1.9 nera venirmi sotto quasi a tamponarmi. Ne incontravo una ogni mattina, magari al volante era sempre la stessa persona che mi pedinava; non si notava, aveva i vetri oscurati, lo stronzo in incognito. La canzone che andava suonando era ogni volta quella: sguaiata, cafona, prepotente. Padrone indiscusso di quella strada, non comprendeva che mi sarebbe bastato un colpo di freno per farlo accorgere di quanto le auto non le facciano più resistenti come un tempo. Lasciai correre, anzi lo lasciai correre, con la speranza che quel posto di blocco che vedevo in lontananza, avrebbe fermato finalmente chi davvero lo meritava. Sarebbe stato qualcun altro a chiedermi le mie generalità quel giorno, è prassi durante la lettura di una sentenza, la mia per l’appunto. Sulla corsia laterale di destra la classica signora di una certa età alla guida di un’astronave, che altro non era che un’utilitaria dal colore pessimo. La schiena staccata dal sedile, il viso incastonato nel volante. Se avesse tamponato anche solo una mosca, la scientifica avrebbe avuto difficoltà a capirne i connotati. Una vecchia canzone francese, di quelle che per sentirle correttamente ci vorrebbe un grammofono: di questo sapeva. La preferivo di gran lunga a quel confetto rosa ricolmo di peluche, con alla guida una coatta da selfie con la bocca a culo di gallina stitica, convinta che tenere il cellulare a mezz’aria davanti le sue labbra rigonfie, la rendesse inattaccabile agli occhi della legge. L’auricolare è da sempre incluso nella confezione di ogni telefono in vendita, se uno non vuole usarlo nel modo giusto, può sempre avvolgerselo stretto attorno al collo. Se mi fossi posizionato sul suo solco, probabilmente sarei stato investito da un ritmo trap latineggiante arricchito da frasi inneggianti alla “vida loca”. Visto che c’era sempre di peggio in questa di “vida”, staccavo per un attimo le mani dal volante intento a prodigarmi in un applauso scrosciante, che se avessi avuto una cabriolet, avrei trasformato in una standing ovation. Ode al furbo che una volta connesso l’unico neurone in suo possesso con lo sfintere, sfrecciava sulla corsia d’emergenza, sicuro di essere più intelligente di noi, che ce ne stavamo imbalsamati nella fila di tutti i giorni. La puntina della sua vita scorreva a vuoto, ciò che emetteva era il suono di un elettroencefalogramma che ne attestava il piattume. La testina della mia vita invece stava saltando di continuo, colpa del sottoscritto, senza ombra di dubbio. Io che mi sono da sempre scavato le buche prima di passarci sopra, avevo devastato per l’ennesima volta l’asfalto della mia esistenza. Avevo creduto che catramare il mio ideale sarebbe servito a riempire quelle voragini, poi quando mi accorsi che queste si riaprivano mostrando le catacombe del mio essere, era oramai troppo tardi.  Se mi avessero scrutato da un cannocchiale, avrei mostrato ogni mio cratere e indotto qualsiasi pioniere a evitare di avventurarsi per un viaggio inutile. Se ne commettono di errori, ma forse avevo esagerato, ubriaco di cazzate, continuavo imperterrito a farne, fino allo svenimento, al “coma idiotico”. Sembrava come se non riuscissi a mettere un freno a tutto questo e la strada della stupidità è noto essere più in discesa del pezzo forte di una montagna russa. Guardai ancora nello specchietto, questa volta c’ero solo io, il taglio dei miei occhi, nessuno dietro a tampinarmi. Avevo una brutta cera, con le mie occhiaie avrei potuto affrontare quel viaggio in cui mi sarei portato dietro tutto. Esigo perlomeno un premio alla carriera, di quelli che si danno a qualcuno dopo averlo snobbato per un’intera vita e poi sul finire ci si accorge della cazzata fatta e si corre a mettere una toppa. Chi più di me merita “L’imbecille d’oro”? Ma se non volete darlo al sottoscritto, che almeno la statuina, posta accuratamente su un piedistallo color merda, abbia le mie sembianze: “And the winner is…”. La sensazione più bella di un vinile, di questo enorme disco sul quale stava girando la mia vita, era il fruscio che produceva. L’unica cosa che mi faceva credere di essere ancora vivo, come un flebile respiro. E pensare che un tempo fecero di tutto per attutirlo, relegandolo a rumore. Mancavano pochi chilometri, l’uscita la scorgevo in lontananza, sarei sceso per quella rampa che mi avrebbe portato dritto al tuo inferno che in fondo era anche un po’ il mio; quante volte c’eravamo finiti a turno, invitati dall’altro ad andarci. La voglia di farmi “un altro giro, un’altra corsa” si era impossessata del mio cervello: “Venghino signori, venghino”. E sarei andato volentieri, perché una lunga agonia è sempre meglio di un finale in cui si è consapevoli che ciò che verrà dopo sarà ancora peggio. Nulla da fare, l’auto girò da sola, il soprappensiero di quella strada fatta già mille volte s’impossessò del mio destino, sfoggiando il miglior automatismo in mio possesso. Mi sentivo allenato per salire i pochi gradini del mio patibolo, ma poco avvezzo alla scomodità che avrei patito una volta inginocchiatomi e poggiata la testa, in attesa che quel coltellino svizzero, maneggiato maldestramente, mi staccasse di netto il cranio dal resto del corpo.  Avrei voluto girare cento chilometri in cerca di un parcheggio, ma quella giornata fredda e piovosa di febbraio si era trasformata in una mite serata di metà agosto, dove la città si svuota e solo l’imbarazzo della scelta ti frena per un attimo dallo scegliere dove voler posteggiare. Proprio sotto il tuo portone, un parcheggio così largo da farci entrare un camion. Le manovre che adottai per rallentare il più possibile la questione erano paragonabili a quelle di un anziano col cappello che tenta di infilare la sua tre volumi in un buco in cui entrerebbe a malapena una Smart. Scesi dall’auto e mi guardai intorno, cercando un po’ di solidarietà negli sguardi che avrei incrociato; il mondo è un luogo popolato da camerieri che guardano sempre da un’altra parte quando li stai chiamando. Il portone si aprì e in quel momento ebbi la conferma che quello 0,000001 di possibilità che riponevo di solito nel poter cambiar vita grazie a un Gratta & Vinci da un euro, risultava ancora vana. “Sei tornato a prendere le ultime cose?”mi chiese il suo nuovo compagno sceso per le scale come a volermi lasciare l’ultima scena, o meglio l’ultima cena, in cui però non ci sarebbe stata nessuna pietanza sulla tavola, ma si passava direttamente alla fase del tradimento, quella in cui però nessuno mi avrebbe riservato un bacio. Neanche gli risposi, che si fottesse la buona educazione almeno in certi casi. Un grosso scatolone mi aspettava fuori la porta di casa, pesava come è giusto che pesino i ricordi. Chiamai l’ascensore sperando che avesse un tasto per l’inferno, nel mentre sentii la puntina raschiare un disco che non avrei mai più riascoltato. Copyright© All rights reserved
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