La pizzettara

Copertina La Pizzettara di Alberto Fiori

Un adolescente innamorato, una donna senza scrupoli, una madre preoccupata. Questi gli ingredienti di una storia liberamente attratta dalla mia adolescenza. Ogni riferimento a pizze e persone è puramente voluto.

Tempo di lettura: 2 minuti

Mia madre pensava mi drogassi. Ero sempre in cerca di soldi; parliamo di poche migliaia di lire, ma tutti i pomeriggi, prima di uscire con i miei amici, ero diventato per lei una tassa fissa: «Non è che c’avresti cinquemila lire, pure tre vanno bene» e così per sei giorni alla settimana. Effettivamente a ripensarci, sembravo Spadino, il tossico che girava in zona. Mia madre mi vedeva più rotondo del solito, ma non volendo chiedere in giro, aveva letto che tra i sintomi più frequenti da uso di sostanze stupefacenti, c’era il gonfiore. Non escluse nemmeno l’ipotesi che portava alla famosa ‘pancia da bevitore‘. Era preoccupata, s’informava e mi spiava mentre guardavo la tv, mentre facevo i compiti, quanto tempo restassi chiuso in bagno; se l’avessi saputo, l’avrei tranquillizzata. A pochi metri da dove ci riunivamo con i miei amici a parlare (la ‘comitiva‘ per intenderci) c’era una grande pizzeria al taglio. Al suo interno si manifestava lei, la ‘Pizzettara’, così la chiamavano in zona, ma io sapevo che il suo nome era Barbara, perché me lo aveva confidato un giorno, facendomi l’occhiolino. Lei era la mia spacciatrice di fiducia. Come la vedevo, i miei ormoni da adolescente andavano in tilt e una sorta di ebetismo s’impadroniva della mia persona. Lei lo sapeva e ne approfittava. Era più grande di me, di quanto non lo so, ma incarnava il mio ideale di donna con la quale mi sarei voluto concedere per la prima volta. Sognavo che fosse con lei, lì sul bancone, che al posto dei calzoni, un giorno ci fossero poggiati i miei. Lei aveva capito tutto e ci giocava su questo, ogni pomeriggio mi rifilava un pezzo di pizza enorme, sempre lo stesso gusto, perché di quello ero pazzo, oltre che di lei. Il rituale, le battute erano sempre le stesse, ma funzionavano, dette con voce provocatoria e sensuale, condite da uno sguardo ammiccante che racchiudeva una tecnica di vendita che Giorgio Mastrota a confronto è un principiante. Il tutto iniziava non appena mi vedeva entrare: «Ho la patata appena uscita, ne vuoi un pezzo?» mordendosi il labbro inferiore, «Guarda, è tutta calda calda», indicandomela, «Non lo vedi come fuma?» C’era ancora un’ultima battuta alla quale cedevo a ogni tentazione, capitolando con i soldi in mano: «Vuoi che te la apra?» Dentro di me, il boato dello Stadio Olimpico a un goal vittoria al novantesimo si espandeva per minuti, un ‘espressione alla Alvaro Vitali davanti alla Fenech si disegnava indelebile sul mio volto. Il mio rapporto con lei terminava quando le porgevo i soldi, lei mi sfiorava la mano, le ginocchia che mi cedevano e afferravo tre, quattro mila lire di pizza con le patate, che all’epoca era abbastanza per aggiudicarsi quasi mezza tiella. Prima che uscissi, aspettava che ne addentassi un pezzo in sua presenza e si raccomandava che la mangiassi tutta, chiedendomi premurosa: «Com’è la patata? Buona?». Me ne tornavo ogni pomeriggio sconsolato a casa, insieme al mio testosterone rimbambito di carboidrati, recriminando su una banale battuta che non ho mai avuto il coraggio di farle e che mi ero fissato potesse un giorno farmi svoltare la situazione: «Oggi sei più capricciosa del solito». Quindi, sì madre ero drogato, ma d’amore, per la pizza con la patata. Copyright© All rights reserved
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