L’ultima parola

L'ultima parola copertinaL’ultima parola di Alberto Fiori è un racconto nato dall’incipit scritto da Romana Petri, incluso nella raccolta di racconti «Mai una tregua» (L’Erudita, 2022).

Quella che qualcuno esige ogni volta di avere alla fine di una discussione: «L’ultima parola». Come se l’averla ‘sputata’ addosso all’altra persona, tfaccia di te un vincente.

Dedico questo racconto alla memoria di Martina Scialdone, perchè scritto di getto dopo l’ennesimo femminicidio.

«L’ULTIMA PAROLA» di Alberto Fiori Era ormai tutto finito. Sembrava che anche il futuro appartenesse al passato. Si erano andati contro tutta la vita. Mai una tregua, cos’altro poteva succedere adesso? L’ultima parola è una brutta bestia, difficile da tenere al guinzaglio; nel volerla a tutti i costi si annidano le insicurezze di chi la esige. Carla questo lo aveva ben chiaro e al contrario di Marco, solitamente, dopo aver esposto le proprie tesi rimaneva in silenzio, aspettando che lui come sempre si sfogasse, si convincesse di avere ragione; per poi lasciarlo cuocere nel suo stesso brodo, come farebbe un pezzo di lesso, galleggiando insieme agli odori della sua stessa presunzione. Marco era quello che si dice ‘un tipo fumantino’, si accendeva come un ‘prospero’ e proseguiva a incendiare il mondo fin quando l’ultima parola non fosse stata la sua. Auto decretarsi vincitore di chissà quale ‘discussione a premi’ gli faceva credere di essere nel giusto. Dietro ogni persona si nascondeva per lui un ‘rivale’, il suo unico intento era quello di evidenziare la sua manifesta, anche se mai riconosciuta da nessuno, superiorità. Lo vedevi poi indossare la sua espressione più saccente, non rendendosi conto che rischiava di strappare schiaffi dalle mani di chiunque la subisse. Che tale comportamento nascesse da un fattore scatenante come un’infanzia difficile o esperienze di vita traumatiche, non era di certo un problema di Carla. Quando la madre di lui le diceva: «Ma lo sai come è fatto!», Carla alternava sempre due risposte, che andavano dal «Io so di cosa è fatto» al «Ma lei si è mai chiesta come sono fatta io?» Carla si era stancata di assecondarlo, di mordersi la lingua, di contare fino a dieci prima di dire una qualsiasi cosa, per paura che questa potesse in qualche maniera indispettirlo; averlo intorno era come essere costantemente sul banco degli imputati, davanti a un giudice di un tribunale campato in aria, capace di sentire solo sé stesso. Troppe volte aveva cercato di allontanare dalla propria pelle quelle bolle che le comparivano: «È una questione nervosa» le dicevano i dermatologi, ma l’unico unguento capace di farle sparire, era lo stesso che avrebbe fatto scivolare via Marco dalla sua vita. La sua analista aveva impostato la terapia sul farle comprendere che persone così non sono altro che metastasi per l’anima. Carla di questo si era convinta e aveva trovato, seduta dopo seduta, la forza per allontanarlo. Quando Marco fece finta d’incontrarla casualmente a pochi isolati dallo studio della psicologa, Carla sapeva che la cosa non aveva nulla di accidentale. Bastò quel «Lasciami stare!» digrignato, perentorio, diretto, per dare modo a Marco d’inalberarsi e questa volta afferrarla per i capelli. Bastò che lei gridasse e un passante, notata la scena, prendesse le sue difese. Bastò che Carla non s’impietosisse per il suo ex, mentre lo vedeva rotolarsi in terra. Bastò ringraziare il suo angelo custode, accettando di farsi riaccompagnare a casa, non prima di aver assicurato il suo passato alle Forze dell’Ordine. Anche in quel caso Marco riuscì ad avere l’ultima parola, un attimo prima che i poliziotti lo spingessero nella loro auto farfugliò qualcosa, come sempre. Copyright© All rights reserved Tratto dalla raccolta «Mai una tregua», da un incipit di Romana Petri edita da L’Erudita di Giulio Perrone.
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