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Cosa vuol dire scrivere una poesia, quando ci si può definire poeti? Qualcuno crede che l’andare a capo ogni tre parole lo trasformi in automatico nel nuovo Foscolo, altri si ostinano a invece cercare ancora la rima baciata, l’assonanza.
Che la poesia serva a porsi degli interrogativi è fuori dubbio. Ho passato decenni a credere che, leggendo nei testi dei vari Fossati, De Gregori, De Andrè, Gaber (e qui mi fermo per non generare una lista di autori che nemmeno una canzone di Sanremo) mi stessi regalando poesia e ne sono ancora fermamente convinto, malgrado le reticenze degli stessi protagonisti a definirsi poeti contemporanei.
E se la poesia invece non fosse altro che una magia (la rima giuro che non è voluta), che sa riconosce il bello, che sia un foglio bianco, una canzone, un quadro, una scultura e ci si insinua, regalando allo spettatore quello stato di calma, che solo la bellezza può regalarti? Poesia e bellezza sono sinonimi?
Ora è il momento delle confessioni, perchè alla fine il passato presenta sempre il suo conto.
Ancor prima di scrivere testi e musiche di canzoni, iniziai proprio da questa nobile forma d’arte. Erano i primi anni ’90, a scuola studiavo i grandi poeti del passato, ma chi mi spinse a scrivere non fu di certo Leopardi o Ungaretti, bensì un ‘poeta metropolitano‘ (così si faceva definire), diventato poi attore di commedie. Sto parlando di Ricky Menphis, ebbene sì. Scoperto da Costanzo e approdato poi alla Deejay Television, trovavo in lui quella valvola comunicativa che mi faceva nascere la voglia di emularlo.Come non citare poi una grande insegnante d’italiano (la Professoressa Tognaccini, pace all’anima sua) che mi diede modo di esprimermi in classe e avere il mio primo pubblico. Proprio dalla cena per il trentennale dal diploma è uscita fuori una di queste poesie (grazie Michela per conservare il nostro passato) e l’emozione nel rileggerla è stata davvero tanta, soprattutto perchè dedicata proprio a quella professoressa. Mi piace l’idea che già da allora nutrissi la consapevolezza che ‘mette un po’ de’ cultura in qua testa‘ sarebbe dovuto essere il mio scopo principale. La bella scuola, quella che ti lascia qualcosa dentro anche a distanza di decenni, soprattutto il ricordo del nome d’arte che mi era stato affibbiato all’epoca, ossia Bebbo Flowers.
Di canzoni da quel momento ne scrissi davvero tante, partendo però sempre dal testo e intendendolo come parte nevralgica dell’opera. Le parole debbono saper trasmettere emozioni, il lettore deve trovare in esse un pensiero che lo abitava, ma che non sapeva decifrare. Quante volte leggendo il testo di una canzone o di una poesia mi sono sentito più forte, appagato. Vorrei citare una frase presa proprio da Ivano Fossati e dalla sua «Pane e Coraggio» che recita così:
“Ma soprattutto ci vuole coraggio
A trascinare le nostre suole
Da una terra che ci odia
Ad un’altra che non ci vuole…”
Davanti a a queste parole ho pensato subito che sarebbe stato inutile scrivere d’immigrazione, già era stato detto tutto; in quattro righe Fossati era stato capace di farmi assaggiare quella tragedia. La poesia è anche questo: consacrazione di un concetto, immedesimazione, ma soprattutto ragionamento dell’anima. Ho sempre odiato l’istintività, il sentenziare per partito preso senza che ci fosse un ragionamento a monte. La poesia mi ha insegnato proprio questo,a ragionare sulle cose.Per qualcuno
scrivere poesie
vuol dire andare
a capo ogni
due o tre parole.
Per altri invece l’importante è che s’imprima
baciata o alternata rigorosamente in rima
Io la trovo invece ovunque
nel testo di una canzone
in un passaggio filtrante
nel sorriso di un neonato
nello sguardo perso di un primo appuntamento,
in un tramonto amalfitano.
Ho solo un dubbio a riguardo
se la poesia sta più nella bellezza
o in chi si accorge di essa.
Copyright© All rights reserved Tratto dalla raccolta «Una poesia al giorno», per la collana Affiori di Giulio Perrone.