Morse

«Morse» è un racconto nato dall’incipit scritto dal Premio Campiello Giulia Caminito, incluso nella raccolta di racconti «Il coniglio e la ragazza» (L’Erudita, 2022).

«Morse» può essere qualcosa che ti stritola o un linguaggio per comunicare.

Ho paragonato la scrittura di questo racconto a una manovra di Heimlich, capace di liberarmi l’anima da un peso che mi stritolava.

Cercare ‘il tramite’ è l’unica soluzione .

«MORSE» di Alberto Fiori

L’animale fissava la ragazza dall’alto del muretto in pietra grigia. Il coniglio era bianco, con una piccola macchia nera nel dorso. La ragazza fece un passo verso di lui, provocando uno scatto del roditore. Ora si trovava posizionato di traverso, pronto a saltare. Lei fece ancora mezzo passo, allungando in offerta il mazzo di fiori che teneva in mano. Il coniglio sbatté la zampa, balzò oltre il vialetto in ghiaia e corse zigzagando tra le lapidi del cimitero“.

Quei coniglietti erano per Giada l’unica distrazione di quel luogo, dove la morte di sua madre l’aveva catapultata senza preavviso. Erano passati già diversi mesi, ma come le aveva spiegato il suo terapista, ci sarebbero voluti degli anni prima di riuscire a convivere con un tale dolore. «Ho delle morse tremende che mi stritolano dentro», questo gli diceva ogni volta Giada, quando il pensiero della madre cominciava a battere ancora più insistentemente, come un’infezione al culmine. Ogni sabato mattina fermava l’auto sempre davanti allo stesso box di fiori; lo aveva scelto tra i tanti, perché le piaceva il nome Billy riportato sull’insegna, proprio come si chiamava il suo cane di quando era bambina. Comprava ogni volta un mazzo di sempreverdi, le piaceva l’idea di quei fiori indipendenti, che non hanno bisogno di acqua, che avrebbero saputo regalare a quella lapide un aspetto dignitoso a prescindere da tutto, più a lungo di qualsiasi altra specie. Pulirne il marmo, lustrarne la fotografia, erano per Giada un modo per accudire l’accuditile. Guardava le tombe attorno e si era oramai stancata di chiedersi come le persone potessero lasciare i propri cari in balìa di ragnatele e polvere, quale grado di menefreghismo potesse raggiungere l’essere umano: l’indifeso e l’indifendibile. Anche lei sapeva che sua madre non era lì, ma quello era l’ultimo luogo dove l’aveva lasciata, quello era l’unico posto che ne conservava le cose certe, tangibili, benché prive oramai di un’anima. Così con una pezzetta, cercava di dare un tono anche agli altri loculi spogli e polverosi, le piaceva l’idea di donare contegno a chi con la madre stava condividendo quegli spazi. Per Giada, tutto quel da farsi, era un modo, una scusa, per fermarsi il più a lungo possibile. Un giorno decise di mettersi a studiare il linguaggio morse e utilizzarlo per bussare sulla lapide della madre; aveva imparato solo una frase per il momento: « — .. / — .- -. -.-. …. .. / — .— — .-» che altro non voleva dire che «Mi manchi mamma». Avvicinava le nocche della mano sul marmo e lo colpiva delicatamente, proprio in prossimità della foto, con l’idea di produrre un bisbiglio ritmico che non fosse facilmente udibile, che fosse solo il loro, che nessuno potesse giudicare. Cercava ostinatamente un contatto, qualcosa che le facesse credere che tutto quel dolore era solo in attesa di un tramite, che avrebbe risolto, che l’avrebbe fatta abituare a un nuovo tipo di legame. Questo le diceva sempre il suo terapista: «Giada, trasforma il tuo dolore nella tua forza, trasforma le morse che ti attanagliano in carezze che ti sfiorano». Lei aveva provato a sognare la madre, ma non c’era stata notte che non le avesse regalato altro che risvegli senza memoria o incubi persistenti, gli stessi che l’avrebbero resa pensierosa poi per tutto il giorno. Non voleva dall’Aldilà numeri per diventare ricca o premonizioni che l’aiutassero in chissà quale scelta, aveva solo un disperato bisogno di poter rivivere anche solo un momento in compagnia di sua madre, uno di quei sogni che ricordi di aver fatto solo a metà mattina, mentre un sorriso ti irradia il viso. Mentre provava a ribadire quel messaggio cifrato, tamburellandolo ancora una volta e una volta ancora, come a voler essere sicura che arrivasse a destinazione, Giada si accorse che lo stesso coniglio che l’aveva accolta al suo arrivo, era tornato e la stava fissando, muovendo le orecchie a ogni tocco da lei ‘sussurrato’. Man mano che il messaggio veniva ribadito, il coniglio con un piccolo balzo, si avvicinava alle sue gambe; Giada naturalmente faceva finta di niente per non vederlo nuovamente fuggire. Sembrava come se l’animale volesse capire meglio cosa si stessero dicendo. Arrivatole a un centimetro dalla gamba, con il muso le fece una carezza e poi saltando, balzò via nascondendosi dietro un albero, tra l’erba alta. Quel coniglio le avrebbe fatto ancora compagnia per molte altre volte, dandole il benvenuto e ritornando non appena Giada iniziava il suo rituale, per poi sfiorarla ogni volta. «Trasforma le tue morse in carezze» Bussare su quella lapide era come battere a una porta aspettando di entrare. Tornando a casa ogni volta, man mano che il tempo passava, le morse di quel dolore si andavano attenuando; si accorse che, per uno strano gioco di parole, il codice che aveva adottato per fuggire dalle sue morse, era formato dalle stesse medesime lettere. Copyright© All rights reserved Tratto dalla raccolta «Il coniglio e la ragazza»,  da un incipit di Giulia Caminito edita da L’Erudita di Giulio Perrone.
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